Messina – Taranto inizia presto. La partitella del giovedì è già diventata abitudine a cui facciamo fatica a rinunciare. Pur essendo infrasettimanale e ad un orario non certamente comodissimo, ogni difficoltà sembra magicamente dissolversi quando di mezzo c’è la biancoscudata. Non che non avessimo niente da fare, anzi, impegni di vario tipo ci consiglierebbero di lasciar perdere, di evitare inutili sacrifici, almeno nei casi in cui, questi, non fossero strettamente necessari, eppure quei gradoni sono un magnete dal quale veniamo inesorabilmente attratti.
Il luogo comune del tifoso nullafacente, pur superato dal mutare delle epoche, rimane radicato in chi, dall’alto della propria onniscienza, si arroga il diritto di puntare il dito. “Non ti curar di loro ma guarda e passa”, lo disse Virgilio a Dante, ce lo ripetiamo costantemente noi di fronte a simili giudizi. Abbiamo speso milioni di parole e versato fiumi di inchiostro e, se è vero che “a lavari a testa o sceccu si peddi acqua, sapuni e tempu”, non abbiamo intenzione di dissipare ulteriori energie, in fondo, della vostra approvazione non ci importa granché.
Ci interessa, quello sì, vincere e per riuscirci non risparmieremo voce e polmoni. Una vigilia all’insegna del bel tempo, mista alla delicatezza della sfida ci induce a credere sia effettivamente possibile un incremento di presenze. Una birra bevuta in fretta e furia, tanto dura l’illusione: entrati al San Filippo, lo scenario è sempre lo stesso. L’entusiasmo per l’ingresso della nuova società, ha recato una ventata di serenità all’ambiente, ma non ha, ancora, riacceso la passione dei messinesi. Ci vorranno lavoro certosino e buone dosi pazienza e perseveranza, ma prima o poi tutti torneranno. D’altronde sperare non costa nulla. Nell’attesa ci carichiamo la croce sulle spalle e, stringendoci attorno alla squadra, proviamo a spingerla verso la salvezza. Dalla permanenza in Lega Pro passa, infatti, ogni qualsivoglia progetto di ricostruzione e sono gli undici in campo ad averlo compreso meglio di chiunque altro. Gli ultimi ritardatari stanno, prendendo posto sugli spalti, qualcuno è ancora in fila ai tornelli, mentre Anastasi con un memorabile gol di tacco cancella in un solo momento fantasmi legati ad illustri, quanto ingrati, predecessori. La rete è una miccia, utile a far esplodere l’entusiasmo ed a moltiplicare i decibel del tifo, ma è soltanto il preludio al delirio. Passano appena una manciata di minuti e con un’azione da manuale Foresta raddoppia. Siamo increduli, uno scontro diretto dal peso specifico elevatissimo è già archiviato: il Taranto è assente ingiustificato, il Messina, forte del vantaggio, è un leone sornione pronto ad affondare il colpo.
In curva si canta e si balla, il resto non conta più. La tensione della settimana si è sciolta ed è, adesso, ricordo lontano. Uno striscione ribadisce la voglia di tornare al Celeste. In via Oreto si sono scritte pagine memorabili di storia non solo calcistica e vedere un catino infernale, ridotto a letamaio, inevitabilmente, è sanguinosa pugnalata al cuore di quanti, come me, su quei gradoni hanno imparato a sentirsi orgogliosamente Messinesi. I ragazzi extracomunitari in gradinata, si sbracciano ed esultano: pure a loro la biancoscudata ha regalato un pomeriggio di spensieratezza, a testimonianza di quanto sappia essere fattore aggregante una palla che rotola.
All’intervallo gli applausi sono scroscianti e convinti. Non potrebbe essere altrimenti. La ripresa sul terreno di gioco è ordinaria amministrazione, sugli spalti una festa continua. I vessilli giallorossi splendono sotto il primo sole di una primavera non, ancora arrivata, soltanto per una mera questione di calendario. Le sciarpe e le bandiere levate al cielo con fierezza sono la risposta più bella a quanti si erano già affrettati ad intonare il de profundis e con sommo dispiacere, si ritrovano, invece, costretti a riporre nei cassetti elogi funebri e telegrammi d’addio. Rassegnatevi, siamo vivi. Gli ospiti accorciano nel finale, Milinkovic è lesto a ripristinare le gerarchie. Dagli altri campi giungono notizie contrastanti, intanto arriva il triplice fischio.
La partita è finita, la voglia di cantare, evidentemente, no. “O mamma, mamma, mamma, sai perché mi batte il corazon? Ho visto il mio Messina, ho visto il mio Messina. Wé mammà, innamorato so’”. Nelle corde vocali tirate al massimo ci sono le giornate sotto lo studio del notaio, i pomeriggi ai cantieri navali, il diluvio del derby ed i gol di Barisic e Pozzebon. Ci sono le umiliazioni a maglia e città, incassate e portate a casa. Ma c’è soprattutto l’ostinazione di non mollare mai, d’altronde “nessuna notte è così lunga da impedire al sole di risorgere”.
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